Al giorno d’oggi viviamo in una società che sembra basata su un ideale, irraggiungibile, di perfezione. Siamo quotidianamente bombardati da immagini perfette: corpi perfetti, cibi dall’aspetto impeccabile, persone sempre felici ed appagate del proprio lavoro, famiglie “del mulino bianco” che sembrano non avere alcun problema, relazioni di coppia prive di incomprensioni e litigate, case perfettamente arredate e sempre in ordine. I social network e le pubblicità ma, in generale, i media, veicolano continuamente modelli di perfezione.
Siamo quindi immersi in un mondo che sembra spingerci alla ricerca della perfezione, del risultato, del migliore. Dove l’efficienza, il rendimento, la prestazione sono diventati miti indiscussi. Una realtà scandita da ritmi e canoni precisi, tabelle di marcia da rispettare alla lettera altrimenti si rischia di essere tacciati come falliti e deludenti.
Sembra che i vissuti di difficoltà, noia, lentezza, errore siano diventati impronunciabili: nemici da combattere ad ogni costo. Se ci fosse il rischio di incontrarli sarebbe meglio cambiare strada, se si accolgono nella propria vita è meglio non farlo sapere, perché si rischierebbe di ricevere etichette non volute, di essere considerati diversi, sbagliati, falliti.
Il valore personale sembra essere infatti direttamente proporzionale e strettamente collegato alla performance, al grado di perfezione esibita. Così veniamo costantemente esortati a migliorare le nostre prestazioni al fine di ottenere risultati sempre migliori. Il perfezionismo domina in campo lavorativo, nello studio, ma anche nelle relazioni sociali, nella cura del proprio aspetto fisico, ecc. Cambiare le dimensioni del naso o del seno, raggiungere quella posizione di rilievo è arrivato a rappresentare la tanto agognata quanto irraggiungibile speranza di una vita perfetta.
Capita spesso di lamentarci o di rimproverarci per non essere all’altezza di un obiettivo che ci eravamo rigorosamente prefissati, quest’autofustigazione è solitamente amplificata dalla convinzione che qualcun altro (colleghi, amici, fratelli) avrebbe sicuramente trovato la forza o la scaltrezza necessarie per riuscirci.
Questo innesca un circolo vizioso tra il bisogno di sentire di avere un valore, di sentirsi riconosciuti per quello che si è e si fa, e la paura di deludere le aspettative altrui sostenuta dalla consapevolezza che l’altro c’è riuscito.
Non avendo il senso del proprio valore intrinseco, il perfezionista tende a misurarlo rispetto a fattori esterni: risultati accademici, abilità atletiche, popolarità (like e followers), risultati professionali. Quando non soddisfa le aspettative (proprie e altrui), prova vergogna e umiliazione. Fin da piccoli, la maggior parte di noi, impara che per ottenere l’approvazione degli altri, è necessario soddisfare certi standard di comportamento. Oltre a tali pressioni esterne, molti percepiscono anche un forte impulso interiore a raggiungere o mantenere determinati livelli di rendimento.
Ma in questi casi si può parlare di perfezionismo o solo di sano desiderio di migliorarsi che, molte volte, può rivelarsi funzionale al raggiungimento di importanti obiettivi di vita? Chi è davvero il perfezionista?
Sul dizionario, la definizione che si trova per questo termine è “tendenza a considerare inaccettabile qualsiasi imperfezione. Chi, tende in ogni sua attività a una perfezione ideale irraggiungibile”. Ciò che contraddistingue infatti chi manifesta il perfezionismo, è proprio il fatto che i loro standard risultano irragionevoli e ben al di sopra delle loro reali possibilità.
Si parla dunque di perfezionismo patologico quando si assiste ad un’esagerata preoccupazione di commettere errori, quando sono presenti degli standard personali irragionevoli, insicurezza, bisogno di controllo e organizzazione estrema e aspettative critiche eccessive.
Tutti potremmo desiderare d’essere precisi. Perché no? Puoi ritrovare dei documenti messi in ordine il giorno prima, catalogare libri e dischi per trovarli subito, organizzare un lavoro con molta precisione, arrivare in tempo agli appuntamenti. Ma, d’improvviso, ci si potrebbe ritrovare a ricercare la perfezione, una condizione più divina e utopica che umana. Nei lavori o nelle amicizie, nei giudizi o nelle morali, o perfino nelle relazioni intime con il proprio partner! Si può finire a rincorrere un ideale che proprio in quanto “idea” è unicamente nella mente della persona (e forse nemmeno lì, dato che la perfezione è inimmaginabile).
La mèta potrebbe diventare quella di piacere agli altri, o a sé stessi, o a uno standard sociale o personale concretamente sempre troppo alto, composto da sempre troppi dettagli, da sempre troppe clausole e condizioni; oppure potrebbe essere l’idea di tranquillità, di serenità nel vedere che tutto combacia, tutto è a posto, tutto in regola senza sgarri e sorprese. Ma finisce per divenire una mèta irraggiungibile, l’appagamento è sempre un metro più in là e, come diceva Monet: “Ho voluto la perfezione e ho rovinato quello che andava bene”.
È che l’ordine a volte ci piace, e anche tanto. Se essere precisi, puntuali o ordinati può essere un vantaggio, perché ci rassicura, d’altra parte risulta uno svantaggio quando la rigidità diviene disfunzionale, quando l’eccesso di controllo ci fa perdere il controllo, a volte sfociando dinamiche ansiose (dall’ansia generalizzata all’attacco di panico) altre volte facendo precipitare l’umore e creando impasse inamovibili. Ed è proprio qui che si può presentare un disturbo noto come Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità (così come un eccesso di perfezionismo). I problemi si presentano quando ostacolano la vita della persona, impedendo di ottenere gratificazioni dai compiti o anche solo di portarli a termine; o quando minano la vita relazionale, creando difficoltà nel rapporto con gli altri; quando paralizzano la vita individuale, quando l’insoddisfazione per ciò che si fa diventa eccessiva e si finisce per assume l’identità di falliti.
Nel 1990 lo psicologo statunitense Randy Frost propose 35 domande per misurare il livello di perfezionismo. La sua “scala multidimensionale” distingueva tre tipi di perfezionismo.
Il primo è il perfezionismo egocentrico: “devo essere più felice, più in forma, più ricco”.
Il secondo tipo è il perfezionismo imposto dalla società, che si traduce spesso in pensieri negativi, in un monologo interiore che ci dice come dovremmo essere e cosa dovremmo fare. Immaginando critiche sprezzanti “sono brutto, mi vesto male, le scelte che ho fatto sono tutte sbagliate, la mia vita è quella di un fallito”.
Al terzo posto c’è il perfezionismo orientato verso l’altro, che rivolge all’esterno quella voce persecutoria e è quasi sempre una proiezione: vedere negli altri il fallimento e la delusione che non possiamo sopportare di vedere in noi stessi, sotto forma di una critica autoritaria: “perché non hai preso 10 al compito di matematica?”
Come abbiamo visto nella società il perfezionismo trova un valido sostenitore ed alleato, ma spesso ciò da cui nasce ed è originato è rappresentato da esperienze infantili molto diverse. Come i genitori affrontano e vivono a loro volta la società, rappresenterà il primo grande esempio che osserveranno e faranno proprio i figli.
Curran e Hill inoltre sottolineano che i “genitori elicottero” (quelli che supervisionano in modo opprimente le attività dei loro figli fuori e dentro la scuola e l’università) hanno contribuito ad aumentare il perfezionismo. Ma sappiamo che anche genitore più periferico può indurre nel bambino un profondo desiderio per il riconoscimento, che quindi crederà di poter ottenere solo attraverso l’accumulo senza fine di risultati. Il bambino che sente di non poter vincere, che i suoi sforzi nello sport o nella scuola attireranno solo le irritanti critiche dei suoi genitori, sarà afflitto dal desiderio permanente di fare meglio sostenuto dalla sensazione e dall’esperienza che comunque non basterà. Ma anche il bambino a cui i genitori assicurano che ogni suo scarabocchio o piccolo premio che riceve è un traguardo storico può sentirsi costantemente sotto pressione per essere all’altezza dei risultati.
Qualunque sia il modo in cui i genitori si rapportano con i figli potrebbe finire per alimentare il disperato bisogno di essere compiaciuti dei propri figli inducendo in loro una difficoltà permanente a distinguere i propri desideri dalle loro aspirazioni e aspettative.
Questo sottolinea ancora una volta quanto sia difficile fare i genitori. Quanto sia importante sapersi sintonizzare con i bisogni specifici dei figli, non trasmettere loro un’ideale e un’aspettativa di perfezione e quanto il giusto mezzo tra il coinvolgimento eccessivo e quello insufficiente nella vita dei propri figli spesso sfugge in modo esasperante. Il pericolo di cadere nell’ideale del “genitore perfetto” è dietro l’angolo, ma sappiamo bene che il genitore perfetto non esiste, esiste il genitore che nello sbaglio riesce, in modo flessibile e creativo a trovare modi di sintonizzarsi con il proprio figlio e riparare. Questo si definisce genitore efficace, che insegna ai propri figli l’importanza di migliorare sé stessi, si seguire le proprie passioni e di essere soddisfatti per i propri successi a partire dalla consapevolezza dei propri punti deboli.
Ci proviamo così tanto e così tante volte a diventare “perfetti” da finire “a fette”.
Scacciare l’epidemia perfezionista è possibile, innanzitutto accettando di non essere impeccabili e, qualche volta, pigri. Entrare nella modalità dell’essere invece che del fare. Il perfezionismo non è garanzia di prestazioni eccellenti, ma un disagio che ci fa perdere tempo: nella ricerca di qualcosa di meglio i giorni passano, ci si ritrova a procrastinare e la sensazione di benessere non arriva. Tanto vale godersi la bellezza dell’imperfezione!